In memoria di Antonino Caruso
Nei giorni scorsi è scomparso a Rimini Nino Caruso, padre di Pietro Caruso, un nostro amico fraterno, valido giornalista e antico collaboratore de “La Voce dell’Isola”. Abbiamo avuto l’onore di conoscere il “duro” Nino Caruso, Uomo di stampo e Maestro di vita: anche per noi la sua dipartita è una grave perdita. Siamo vicini ad Azzurra, la forte consorte di Nino, e a tutti i familiari, e ricordiamo “il Siciliano Nino trasferitosi al Nord” con il discorso che il figlio Pietro ha pronunciato durante le esequie che si sono tenute a Rimini il 24 novembre scorso.
Se sei stato figlio di Antonino (Nino) Caruso e vuoi scrivere sulla sua vita la retorica la devi accantonare. Per quanto sia morto a 91 anni, dopo poco più di cinque lunghissimi mesi fra ospedale e clinica, non puoi contraddire l’assoluta dimensione antiretorica del tuo genitore. In fondo, anche da vecchio, Nino era un ragazzo siciliano, un po’ introverso, orgoglioso, molto intelligente ma mai furbo, formato in una solida famiglia matriarcale dove nonna Anna Patanè e il nonno Pietro Caruso avevano dato vita a nove fra figli e figlie e mio padre era il quarto. La sequenza delle morti degli zii Tino, Nella, Sara e infine del più longevo Nino segue un copione scenico come sarebbe piaciuto ad una commedia catanese di Angelo Musco.
Nino era un uomo libero, insofferente alle gerarchie religiose, politiche, economiche…ma non era un anarchico, se mai un liberale credente che non amava le prediche e le messe, un difensore dell’idea del mercato anche se nell’immediato dopoguerra si era convinto che il modello ideale per l’Italia e per l’Europa fosse quello della socialdemocrazia, proprio quella nella versione europeista di Saragat più che di Nenni. Del resto quando aveva ripreso gli studi universitari dopo il biennio 1943-’45, dove aveva fatto la seconda guerra mondiale, prima nel Regio Esercito e poi in quello ricostruito dopo l’8 settembre del 1943 nelle fila del Gruppo di Combattimento Legnano al fianco degli alleati, i testi su cui studiava erano quelli di Luigi Einaudi e da ragazzo aveva sempre avuto diffidenza del fascismo non riconoscendosi, come anche i suoi genitori, nei fasti del regime se non convenzionalmente come la maggioranza degli italiani dell’epoca. Era comunque convinto della sua partecipazione alla Guerra di Liberazione e della ricostruzione economica e politica essendo fortemente deluso e ostile allo stile della monarchia sabauda…la più pavida al mondo secondo lui (e anche secondo me).
Nino dunque si laureò in Economia e Commercio a Catania. Fra i pochi, ma profondi, racconti del suo passato uno di quelli che mi colpì di più fu quello sul primo importante colloquio di lavoro che ebbe. Lo sintetizzo. Accompagnato da uno zio si recò all’Arcivescovado di Catania che gestiva una grande mensa popolare dove si recavano non soltanto i poveri della cittadina etnea. Fresco di laurea l’incarico che gli veniva proposto era quello di contabile, un super ragioniere con funzioni di controllo, ma anche di gestione di bilancio e spesa. Durò pochissimo tempo. Al colloquio definitivo con il monsignore del tempo fu alla fine messo di fronte al secco dilemma: <Nino, ma tu fra capitale e lavoro che cosa scegli?>. Nino rispose senza tentennamenti: <Lavoro> che in fondo era la domanda della maggioranza dei siciliani e degli italiani di allora e di oggi…e cominciò un’altra storia. Quella dei concorsi per insegnare. Fin dall’inizio degli anni Cinquanta, allora era molto più facile, vinse alcune cattedre nella provincia di Forlì, incluso il capoluogo appunto che allora era la città di Saffi…dove vivo io ora…ma prevalse Rimini. Ai figli ha sempre detto che gli piaceva Rimini perché c’era il mare e lui non poteva fare a meno del mare.
Io credo che anche l’unione con mia madre Azzurra, donna coraggiosa e attivissima originaria di Bologna, che lavorava in una delle aziende telefoniche del tempo prima che diventasse anni dopo la Sip, lo convinse che Rimini era nel dopoguerra un posto più romantico e tollerante verso gli innamorati di quanto non fossero per esempio due grandi città istituzionalmente forti e conservatrici come Catania e la stessa Bologna. Liberi, con pochi soldi, ma felici, fuori dalle loro impegnative famiglie Nino e Azzurra vennero accolti senza troppi pettegolezzi e formalizzarono il loro rapporto dopo qualche tempo. Nino-Pantera per i fratelli e le sorelle catanesi, oggi qui presente nella chiesa di San Girolamo a Rimini, piaceva alle donne per quel suo aspetto mediterraneo, fisicamente integro, snello e dallo sguardo ardito, vagamente ironico…e soprattutto senza barba e baffetti come aveva imperato per quasi tutto il ventennio nella moda maschile. L’insegnamento per Nino è stata la parte produttiva della sua vita in quell’alternarsi di nozioni e discussioni di diritto, economia politica, scienza delle finanze, matematica, ragioneria…migliaia di studenti gli sono stati allievi all’Istituto professionale per il commercio “Luigi Einaudi” e centinaia nelle lezioni che ha impartito spesso a studenti universitari riminesi…in cerca di approfondimento e chiarimenti. Sapevamo che come padre Nino amava stare fra gli studenti anche nei pomeriggi…talvolta per una partita a pallone, o con studenti che avevano superato la maturità per condividere partite a flipper o tornei interminabili di carte al bar Parco…sotto casa, all’angolo con il sottopassaggio vicino alla chiesa di San Nicolò che porta a marina centro. Del rapporto con i suoi studenti amici altri possono parlare molto meglio di me…i rapporti sono più penetranti di quelli con i figli. E’ in parte nel copione dei lavori intellettuali quando sono la propria professione.
Fra i frammenti che rivedo di mio padre una passeggiata, rara, con nostra madre insieme a me, Paolo e Bianca…Rosalba sarebbe nata nel 1966…in pieno periodo della dolce vita. Mi ricordo, come nel film Otto e Mezzo visto tanto tempo dopo, Nino, il professor Lino Rossi, non ancora ordinario di Estetica all’università di Bologna, passeggiare in camicia bianca aperta sul collo, ma Lino aveva anche il cravattino, con la giacca non indossata ma sulle spalle scherzare e ridere chissà su quale goliardata fatta o soltanto ipotizzata. Erano anni di inquietudine, ma anche di speranza. Il più brutto era quello che si era vissuto durante la Seconda guerra mondiale. E poi il rapporto di simpatia con la contestazione, senza però condividere la deriva massimalista e radicale che a partire dall’autunno del 1969 determinò il netto contrasto con le ideologie leniniste e maoiste. In casa nostra c’erano molti libri, giornali quotidiani e settimanali: il Giorno, poi la Repubblica per qualche tempo, quasi sempre il Corriere della Sera e poi dal 1989 quando iniziai a fare il giornalista ma vivevo da anni fuori dalla casa di via Graziani, il Corriere di Rimini e La Stampa…per ragioni affettive evidentemente. L’amore per la lettura era di mio padre, ma anche di mia madre che veniva da una famiglia di voraci lettori. E questo si è trasmesso con l’esempio e qualche oscuro percorso del dna.
Un altro frammento è quando il 4 ottobre del 1977 a Marzabotto, incaricato da tutti i movimenti giovanili dei partiti antifascisti parlai come oratore proprio a distanza di pochi giorni dalla fuga di Kappler dal carcere militare romano dove era detenuto. C’erano almeno 7-8 mila persone…angosciate e infuriate…avevo invitato la mia fidanzata di allora…ma lei giovanissima non se l’era sentita…o forse non aveva capito l’importanza che attribuivo a quell’evento celebrativo…ma quando tutto era finito e il sindaco Cruicchi sottobraccio mi invitò a consumare qualcosa con le autorità del paese, ecco sbucare dalla folla mio padre, con un impermeabile blu e un cappellino di tweed…non era di molte parole Nino, ma vidi quanto in quel momento era orgoglioso di me. Di Nino nonno amorevole so, ma non per continua diretta conoscenza. E’ chiaro che l’esperienza fa maturare e poi è vero che già fra me e mio fratello Paolo e le mie due sorelle c’è un padre più consapevole del suo ruolo e dei suoi onerosi obblighi. Obblighi che io francamente non avrei né saputo, né voluto assolvere. Per questa ultima parte della sua vita credo che meglio possono testimoniare mia madre, le mie sorelle, mio fratello e i miei tre fra nipote e nipoti.
Posso solo concludere che Nino Caruso è stato un uomo onesto, profondo, sensibile e un italiano convinto delle sue poche certezze e meditativo nei suoi non pochi dubbi. Gli ho fatto grave torto, una volta, da giovane dicendo che avevo imparato molto più da grandi maestri con i loro libri più che dalle sue parole. In realtà da vecchio, anche nelle discussioni più accese e non sono uno che si tira indietro in questo specie se si parla di storia, di economia o di politica, ho invece assorbito i pensieri più lunghi. Quelli su cui rifletti non un pomeriggio, ma un’intera vita. Anche di silenzi, rari sorrisi, tenacia nell’amore della vita sono fatti i tempi e i modi dei veri maestri. E del resto chi ama e conosce Leonardo Sciascia sa quanto siano enigmatici e profondi i siciliani. Specie quelli di origine grecanica, come quei catanesi discendenti dagli ateniesi. Si impara più dai loro silenzi, dalle loro risate, dalle loro nostalgie il duro mestiere di vivere.
Pietro Caruso